La Germania e la civiltà europea

«Il Campano», mensile del Guf, a. X, n. 5, Pisa, settembre-ottobre 1934, pp. 11-13.

LA GERMANIA E LA CIVILTÀ EUROPEA

In questi ultimi mesi, dopo gli avvenimenti di Germania che hanno tolto molte illusioni sulla vera natura dell’Hitlerismo e del nuovo risorgimento tedesco, si è formata in parecchi un’opinione che va energicamente respinta. Si dice che la Germania è fuori dello sviluppo della civiltà europea, che si può, senza perder nulla di essenziale, astrarre dalla sua funzione spirituale. E, per mostrare la sua qualità di estremismo sconclusionato, di orgoglio barbarico, si tende a trovare una coerenza evolutiva perfetta tra il Germanesimo della Riforma e del Romanticismo, e il Germanesimo del Nazionalsocialismo, per finir poi con l’auspicare (il che può essere anche legittimo) una civiltà totalmente latina.

Queste opinioni, che non sarebbero in sé troppo considerevoli, ci offrono lo spunto a tratteggiare sinteticamente, nei momenti principali, lo sviluppo della Germania in seno alla civiltà europea, a mostrarne i contributi essenziali, ineliminabili, che si incentrano in un originale carattere di estremismo rivoluzionario distinguente appunto, nella storia passata, la funzione dello spirito tedesco nella formazione del mondo europeo.

Vogliamo dire che la Germania ha portato alla civiltà europea un elemento di approfondita interiorità, un impulso a calare l’ideale nel reale interamente: ha rappresentato quasi l’avvertimento religioso contro ogni accasciarsi della spiritualità europea. Se si potesse antistoricamente, assurdamente astrarre dalla Germania, si perderebbe un duplice interiorizzamento di capitale importanza nella storia dello spirito.

La storia europea si apre con un dualismo perfin troppo sfruttato dagli storiografi: Germanesimo e Romanesimo, che, fuori delle qualificazioni nazionali, si potrebbe ridurre a dualismo di barbarie giovane, feconda e di nobile saggezza, di forza e legge ecc. In realtà fu questo il vero atto di nascita alla storia della civiltà per lo spirito germanico, al quale il Romanesimo fu essenziale come cultura, dopo la cui assimilazione, la personalità non piú ingenua comincia davvero a riconoscer se stessa. Perciò non ci fermiamo ad insistere su questo primo contatto della Germania col mondo latino, che è alla base e non ancora nel seno, della civiltà europea.

La Riforma era stata annunciata anche in Italia da spunti magnifici di neoplatonismo idealistico di grande profondità filosofica (Valla, Ficino, Pico) e, d’altra parte, un grande tedesco direttamente vicino alla mentalità dei riformatori, il Cusano, si era formato sulla cultura e nell’ambiente italiano. E furono poi il Socino e gli altri riformatori italiani a battere sul concetto essenziale della tolleranza. Ma insomma la potente scossa alle coscienze sonnecchianti e sorridenti fu data dalla riforma di Lutero, per opera di Lutero e dei decisi riformatori tedeschi avvenne la nuova nascita dell’anima religiosa nel suo senso di completa fiducia in un Dio che agisce, sostiene, conduce dal di dentro le opere umane. Da una parte tornava la persuasione che solo l’eterno ha valore, che l’uomo deve annullarsi in Dio (un approfondimento dei rapporti tra Dio e uomo, della completa dedizione del particolare all’universale che è squisitamente religiosa e che si ritrova in seguito nello sfortunato movimento giansenista), dall’altra invece si affermava la libertà dell’uomo a pensare da sé, a staccarsi dalla mano materna della chiesa, a celebrare la propria spirituale originalità.

Era insomma un riprendere contatto con il divino, fuori dei sillogismi e fuori dell’elargizione ecclesiastica, dovuto a un estremismo, a un semplicismo distruttore il cui valore dialettico non può sfuggire a chi abbia un chiaro concetto dello spirito.

L’influenza diretta della Riforma sul mondo latino specialmente in Francia, è innegabile: è stato perfino notato che proprio la Riforma ha costretto violentemente la Chiesa cattolica a mettere bene in chiaro le sue carte e a definire per sempre il complesso delle sue leggi culturali, dei suoi dogmi, delle sue pretese di monopolio di salvezza. Ha rotto insomma la civiltà cattolica ed obbligato il cattolicesimo ad entrare come una semplice forza nel gioco piú ampio della civiltà moderna. Ma a noi preme soprattutto in queste note far vedere la funzione dialettica della Germania come necessaria in una civiltà che va considerata come un risultato, una corposa sintesi di forze originali, native e perciò tra di loro contrastanti.

Piú confuso e complicato per gli stretti legami che ormai intercedevano fra le varie nazioni europee, si presenta il contributo dell’elemento tedesco con il Romanticismo. Bisogna anzitutto notare che, per quante colorazioni diverse abbia potuto prendere in alcuni suoi rappresentanti, il romanticismo genuino è decisamente idealistico e trova il suo centro vitale nei teorici del trascendentale e dell’assoluto. La collaborazione di poeti e filosofi nel primo romanticismo alla formazione di una nuova mentalità filosofica è cosí intensa e comune, che non si sa bene ancora se l’autore del Das älteste System-programm des Deutschen Idealismus sia stato Schelling, Hegel o Hölderlin: il romanticismo era idealista e l’idealismo essenzialmente romantico. Quello che abbia dato Kant al mondo dello spirito lo sa anche chi possiede una conoscenza minima del pensiero moderno: come sia da considerarsi uno stretto attraverso cui è dovuta passare tutta la precedente elaborazione concettuale della filosofia europea, come abbia fondato il nuovo Regnum Dei del disinteresse e della dignità umana extrateleologica; come sia nata da lui una chiarezza cristallina al piú assoluto dominio della coscienza, come per opera sua sia caduto, per non piú tornare, il trascendente e tutto ciò che ne consegue. Rispetto al vero romanticismo fu soprattutto la base granitica, la salvaguardia contro le facilonerie e le intuizioni torbide. Il suo richiamo di eroe della morale alla universalità della coscienza legiferante è l’inizio di un nuovo impeto religioso, di una nuova ribellione contro il formalismo del pietismo, il mondanizzamento della riforma e il materialismo illuministico troppo sorridente e sicuro di sé. I successori di Kant approfittarono della rottura del vecchio mondo per una nuova nascita dell’uomo nella consapevolezza del proprio potere creativo.

Il romanticismo piú genuino è veramente uno «Streben», un tendere generoso a nuovi valori spirituali. C’è in tutti i romantici uno sforzo a chiudere l’universale, l’assoluto in ogni atto di vita, a realizzare il paradiso sulla terra, che era ignoto alla mentalità precedente, ed è proprio nell’ambito del romanticismo tedesco che l’aspirazione all’universale e la sua giustificazione filosofica raggiungono un massimo che nessuna altra epoca ha toccato. Ci ricordiamo sí, fuori d’Europa, delle profondità indiane, ma direi che restino per lo piú in un cerchio pacato di moralismo e di saggezza senza quel senso della conquista che caratterizza il lato positivo del romanticismo.

La vecchia metafisica, scartata e derisa piú che abbattuta dall’illuminismo, trovò davvero la sua fine nel criticismo kantiano, ma la nascita della nuova metafisica, della nuova teologia, sia pure troppo spesso trionfale e rapsodica, la dobbiamo all’idealismo assoluto dei romantici. Essi ci diedero un Dio propagginato nella storia dello spirito perché ne rifiorisse ad ogni momento di espressione, e ci fossero resi impossibili i titanismi atei e negatori di un divino che si suppone diverso, lontano da noi.

Quello che ci abbia dato il romanticismo in ogni campo spirituale è tanto che ce ne sentiamo ancora, anche negandolo, eredi; ma basterà qui notare l’importanza del romanticismo per il fiorire dei principî nazionalistici nella loro massima purezza. La prima nazione europea che abbia coscientemente propugnato il principio nazionalistico con quella speciale giustificazione ideale di funzionalità delle nazioni al progresso dell’umanità, è stata appunto la Germania di Fichte.

Dopo il romanticismo, il mondo europeo prese coscienza del genio romantico e applaudí alle ceneri della gran fiamma romantica. Allora cominciò l’oppressione del tedeschismo sul mondo occidentale, l’ammirazione degli ingenui per le industrie del Reno e per le manifestazioni militariste del popolo tedesco. In realtà allora la Germania tradiva se stessa e il suo compito nella civiltà europea. Non si insisterà troppo sulla passività del materialismo in Germania: si perde la misura dello spirito e ci si volge all’esterno, al «kolossal», al quantitativo, si proclama: «Die Kunst hat die Tendenz wieder die Natur zu sein», si prende il superuomo di Nietzsche per un volgare conquistador e si fonda la possibilità del kaiserismo. Spiritualmente Sedan fu l’inizio della decadenza della Germania, della morte della sua funzione, e il Sedanlächeln di cui parlava acutamente Giorgio Polverini nell’«Italia letteraria» del 29 settembre, è il pietoso indice di un popolo che ha perduto il senso del divino per divinizzare la materia e la grandezza in estensione. Tutto ciò è venuto dopo, è malato di intimo kaiserismo e di americanismo impesantito, incupito. La grandezza materiale parve stravolgere in un senso imbastardito, esteriore, i motivi piú genuini del romanticismo: perciò si parlò di Kant che aguzza le baionette prussiane e si sentí indigesto per naturale reazione ogni prodotto dello spirito tedesco.

Neppure la sconfitta della grande guerra, da cui «La Voce» nel ’14 si aspettava mirabilia («Perché torni uomo bisogna che le tocchi… Una sconfitta tedesca farà prima di tutto del bene ai tedeschi stessi»), cambiò l’indirizzo della Germania e la fece ripiegare sulla sua tradizione migliore. Subito dopo la guerra era proprio l’orgoglio della grandezza imperialistica che spezzava nelle mani di Liebknecht e della Luxemburg i loro sogni comunistici.

Ora la Germania di Hitler non ha fatto altro che riacutizzare questa deviazione dal meglio della tradizione tedesca, con un’audacia che non mancò neppure alla Germania di Guglielmo II. Noi rispettiamo moltissimo chi, in buona fede, prende una strada e la prosegue fino in fondo a costo di cascare in un burrone, e crediamo che questo sia un carattere rilevante, cosí indiscriminato, dello spirito tedesco, ma qui è proprio il caso di fare giudizi qualitativi, di contenuto spirituale. Allora si vede che l’Hitlerismo ha un valore di esperienza, sconta in un certo senso i nostri possibili peccati, ma non contiene nulla di paragonabile a ciò che trovammo nella Germania pre-Sedan.

L’Hitlerismo, da una parte nega antistoricamente l’essenza del Cristianesimo, congiungendo il proprio ideale eroico, ariano alla Germania barbara preromana (ed è questa la vena piú assurda ed ingenua del movimento), dall’altra non vuole perdere dei momenti (non dei valori) della storia tedesca per lo spunto di glorificazione razzista che presentano: ci si riattacca cosí alla riforma luterana. Ciò ha fatto pensare a molti che non si tratti di una coincidenza, ma proprio di una vicinanza nucleare di Lutero e Hitler. L’equivoco su questa parentela è patente: si presta fede al discendente che vanta il titolo nobiliare e non si guarda a ciò che sostiene le due personalità, le due affermazioni. In Lutero c’era sí, ad esempio, la tendenza ad una chiesa nazionale e cioè ad una svalutazione dell’unica mastodontica chiesa gerarchica, per sfruttare ai fini religiosi la concordia di un popolo di uguale mentalità, ma non ad una chiesa di razza, in cui neppure il battesimo ha il potere di annullare le disparità naturali, non ad una chiesa che vive funzionalmente alla politica e perciò stesso nega la propria qualità religiosa. Cosa c’entra la riforma di Lutero, sostenuta da tanto impeto spirituale, con la riforma del Reichbischof Müller che scristianizza il protestantesimo senza dargli nulla di nuovo? Cosí come, se Fichte favorí il principio nazionalistico e per la nazione morí nella guerra di indipendenza contro Napoleone, il valore di quel nazionalismo, non era proprio la negazione di ogni nazionalismo? In quel momento lo spirito era con quel nazionalismo di alta coscienza morale, ora lo spirito è contro il razzismo barbarico della nuova Germania.

Potrà sembrare assurda un’assoluzione totale della Germania passata (sentita come un elemento importantissimo, essenziale alla civiltà europea) e una condanna pure totale della Germania moderna, e sembrerà troppo netta la separazione tra le due Germanie. Si dirà che il modo con cui si afferma l’Hitlerismo è anch’esso prettamente tedesco, estremista, vibrato, non patteggiatore. Infatti è questo l’unico motivo per cui sinceramente rispettiamo lo sforzo del Tertium Imperium cui si può riconoscere una non ipocrita coscienza di missione divina, un certo senso teologale (come accenna Delio Cantimori, recensendo, nel «Giornale critico della filosofia» del giugno, l’antinazista Barth). Ma questa volta bisogna domandarsi: Cui bono? A quale fine? Ché un tuffo nella barbarie non è certo il migliore contributo che si possa portare alla civiltà europea.

Nella Riforma e nel Romanticismo, la deduzione spirituale era esattissima, la fecondità di svolgimento patente, ma nel Nazismo le cose che piú ci impressionano, oltre il coraggio, che abbiamo già lodato, sono le corna barbariche del dio Wotan e la ripugnante croce uncinata.

Ad ogni modo c’era nel nostro articolo un’intenzione di esasperare i motivi estremi, di mettere in luce i caratteri fondamentali. E contentissimi se qualcuno ci mostrerà gli scarsi meriti della Riforma e del Romanticismo, ci farà vedere nel movimento nazista quelle idee e quel significato spirituale notevole per l’Europa che noi non ci abbiamo saputo vedere.